colaninn1.bmpVarcando la soglia della pizzeria Maninalto, m’accorsi dell’equivoco, fui circondato da esattori della mola, quelli che pretendono pagamenti smerigliati e caddi, emozionato, come porco morto cade. Fui subito altrove. Un oceano di persone alimentato da una fiumana di individui dava il senso di un certa umidità. Ma qualcosa mi impediva la visione. Qualcosa di enorme, di fronte a me. Oblunga, svettante.
Era il cranio di Colaninno. Figlio. Il padre, chissà. Alla sua destra, D’Alema. Alla sua sinistra, Parisi, più dietro, livida d’invidia, la Cuccarini. Mi feci largo. Anche io, urlò Ferrara. No, no. Largo tra la folla. Ah, mbè. E guadagnai il podio.
Amisci, sono felisce.
Come felisce?
Felisce…della scittà.
Ma come scittà? Ma dove ero, ma che fascevo? Cioè, facevo. Ci fu silenzio. La folla si tacque. Gli occhi erano su di me. Mi passai una mano sul mento, sul primo. Poi sul secondo e poi sul terzo. Fu allora che capii di essere Veltroni.
Amisci. Felisce e scittà li ho pronunsciati?
Sìììì
E allora dico sciao, sciao o miei scittadini!
Dicce de più.
Scerto. Scertuno disce che scerti mesi fa non sc’era il nome di Berlusconi in quello che discevo. Ma Berlusconi non sc’ha le sci. E ho bisogno di sci, io. Ma non sci come sciare. Sci come scittadini! Miei scittadini.
Un boato. La folla esultante applaudiva. Applaudiva Fassino, svenendo, applaudiva Parisi, applaudiva la Cuccarini. Applaudivano i più lontani nel podio battendo le mani sull’enorme e oblungo cranio di Colaninno (figlio, il padre chissà) che fu dotato di una scala per chi volesse seguire la cosa dall’alto.
Scittadini, sono scerto che sce la faremo, oui.
L’accento mi stava prendendo la mano.
Sce la faremo. Sarèm scittadèn vittoriòs. Sconfisgerèm la destr. Riporterèm la feliscitè. L’égalité, la liberté. Vive Airfrons!!
E fu il trionfo. La folla invase il podio. Mi prese, mi sollevò e mi innalzò come un vessillo, festante. Ero raggiante. Vestito da Robespierre, con la baguette sotto un braccio e pronto a dare craniate a Materazzi. Giusto per sottolineare l’accento. Tutti appluadivano, esultavano, gioivano. Poi, al terzo giro di Circo, qualcuno parlò.
Sì, vabbè. E adesso che famo?
Cadde il gelo.
E ancora quella voce.
No, dico, dopo tutto ‘sto casino…che dovemo fa’?
Rimasi sgomento. La folla, impietrita, rimase allibita. Tutti rimasero allibiti. Sul palco Parisi smise di cantare cica cicà e rimase allibito. Fassino allibito da svenuto. D’Alema allibito, Melandri allibita. Colannino (figlio, il padre chissà) per l’allibimento fece una testa piccolissima e ovunque fu silenzio. E ovunque fu sbalordimento. La folla si disperse, il podio venne smontanto.
No, amisci che fate? No,scittadini, no!
Fassino se ne andò con D’Alema, Parisi con la Cuccarini, la Melandri con Briatore, così, per ricordare antichi fasti. La questura disse che avrebbe dato cifre in euro e ancora una voltà arifù silenzio. Solo, tra due scopini e tre porchettari, urlai la mia disperazione. Perché, perché, perchèèèè?!!
Qualcosa mi solleticò le nari. Risi per una parola come nari e mi ridestai. Intorno a me primitivi incappucciati. Di fronte, un mitra spianato e inamidato. Ma allora ero ancora in pizzeria. Avevo solo giaciuto senza sensi. Garrulo, saldai cantando. Cinquecento euro e quindici calci nel culo. Che presi io. Ma, deh, che importava? Tutto mi sorrideva, ovunque era splendore. I prati erano in fiore, le rondini facevano primavera e non c’era marcio in Danimarcia. C’era solo un dettaglio che non mi tornava. Non ricordavo nulla del sogno ma provavo un irrefrenabile desiderio di misurare la capa di Colaninno. Figlio però. Il padre, chissà.

RobCor